Sculture delle Apostoli e dei Santi Protettori di Orvieto: le caratteristiche delle opere e gli artisti che le hanno scolpite

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Sculture delle Apostoli e dei Santi Protettori di Orvieto: le caratteristiche delle opere e gli artisti che le hanno scolpite

COMUNICATO STAMPA n. 785/19 G.M. del 13.11.19
Le sculture delle Apostoli e dei Santi Protettori di Orvieto 
(ON/AF) – ORVIETO – Di seguito si riportano le schede delle sculture delle statue degli APOSTOLI e dei SANTI PROTETTORI della Città tornati all’interno del Duomo di Orvieto curate da Alessandra Cannistrà Responsabile del Museo MODO / Museo Opera del Duomo.
Le opere scultoree (Fonte: Opera del Duomo di Orvieto)

IL GRUPPO DELL’ANNUNCIAZIONE di Francesco Mochi (Montevarchi 1580 – Roma 1654)Annunciazione: l’Angelo (1603-1605) e la Vergine (1605-1608) – Duomo, ai lati dell’altare maggiore su basamenti marmorei originali. Restauro: Maura Giacobbe Borelli, 2019L’ingaggio di Francesco Mochi da parte dell’Opera avvenne dietro insistenti sollecitazioni di Mario Farnese, suo protettore. La prima statua commissionatagli fu l’Angelo annunciante, figura che riscosse un notevole successo, tanto da procurargli i successivi incarichi per la Vergine annunciata e il San Filippo. Queste ultime due non ottennero però il medesimo consenso, provocando anzi una contesa legale sulla valutazione. Con l’Annunciazione veniva esteso anche alla tribuna il programma di rinnovamento iniziato dalla metà del Cinquecento, ribadendo così il tema mariano già soggetto degli affreschi trecenteschi retrostanti. L’accostamento tra il dinamismo centrifugo dell’Angelo e la concentrazione dello scatto allarmato della Vergine produce un insieme di sorprendente complementarietà ed equilibrio. Il formidabile movimento dell’Angelo è frutto di uno schema formale profondamente innovativo sostenuto da una capacità tecnica che precorre i virtuosismi barocchi. Il volume compatto della Vergine, in apparenza meno impegnato, è al contrario un saggio di analisi psicologica e di indagine naturalistica, in particolare nel brano del sedile.

L’Annunciazione di Francesco Mochi, tra dubbi e resistenzeLa definizione plastica dell’area presbiteriale della cattedrale verso la quale gravita il flusso dell’Apostolato ebbe come fulcro tematico e formale, oltre che prospettico, il fiammeggiante Angelo annunciante e la sublime Vergine annunciata scolpiti da Francesco Mochi. Questi due capolavori sono tra le opere più alte della scultura italiana di tutti i tempi, forse non pienamente comprese nei loro più profondi valori formali e di contenuto.La statua al naturale dell’Angelo, insieme a quella dell’apostolo San Filippo, fu oggetto del primo ingaggio ottenuto dal giovane artista di Montevarchi: giovane ma già maturo di formazione e di relazioni, come quella con Mario Farnese che gli valse l’incarico. Nell’arco di circa due anni, tra il 1603 e il 1605, Mochi con un collaboratore si trattiene a Orvieto, a spese dell’Opera, per lavorare alla scultura. L’Angelo risultò di grande impatto e fortuna presso i committenti, ma dei novecento scudi richiesti ne furono pagati solo seicento, per la verità quanto era costato il San Matteo eseguito qualche anno prima dal grande maestro Giambologna. I Soprastanti della Fabbrica raddoppiarono l’impegno verso Mochi commissionandogli la Vergine annunciata e, successivamente, un secondo apostolo; e gli affidarono tutta la provvista di marmo di Carrara che l’artista stesso aveva selezionato in cava e che aveva raggiunto Orvieto, come ogni volta accadeva, a seguito di un avventuroso viaggio.Mochi portò avanti la lavorazione della statua dell’Annunciata secondo contratto e in aderenza al modello presentato. Intanto, l’Angelo era stato collocato sulla tribuna presso la balaustra, sul lato della Cappella Nova. La Vergine invece, terminata nel settembre 1609, solo tre anni dopo poté prendere posto anch’essa nel coro, a sinistra della prima scultura.La storia dell’Annunciazione di Francesco Mochi è esemplare sotto certi aspetti della difficoltà per i contemporanei di accettare i cambiamenti rapidi, le novità emergenti e abbandonarsi al tempo nuovo. L’Angelo dovette soprattutto colpire per la sua incontestabile bellezza. Ma se oggi, con sensibilità moderna, viene unanimemente percepito come preludio della “maraviglia” barocca, creatura di luce affine ad un altro santo messaggero, quello che Caravaggio dipinse nell’atto di portare a san Matteo l’annuncio dell’apostolato, le testimonianze storiche dimostrano invece che al pubblico dell’epoca trasmetteva un dato tranquillizzante di continuità con la tradizione cinquecentesca, secondo una linea di sviluppo evidente ma accettabile rispetto alla grande maniera dell’apostolo scolpito da Giambologna. La figura della Vergine, invece, non esprimeva la stessa “qualità” e fu immediatamente oggetto di critica perché si poneva come opera di rottura con il sano vincolo col passato. Nelle forme compatte avvolte nella veste dall’effetto anatomico doveva probabilmente cogliersi il riferimento evidente alla Santa Cecilia di Stefano Maderno, un’opera di grande fama nell’ambito della scultura romana pre-berniniana. Ma quell’ispirazione lasciava il passo a un interesse ben più eversivo da parte dell’artista per la nuova estetica del naturale, che sembrava degradare la sacralità del soggetto in un eccessivo coinvolgimento psicologico che si concentrava nella descrizione del sentimento tutto umano del turbamento e della paura. Il peso dei particolari naturalistici, come la sedia domestica e ordinaria dalla quale la grande figura sobbalza, creava un disagio che possiamo forse meglio comprendere nel confronto con un’analoga raffigurazione, la sedia su cui si abbandona la figura della Maddalena accanto al corpo “morto” della Madonna dipinta da Caravaggio nella famosa tela oggi al Louvre. L’analogia tra le due opere potrebbe spingersi oltre: come la tela caravaggesca, anche la statua del Mochi fu inizialmente rifiutata. Le critiche del vescovo di Orvieto, il cardinale Giacomo Sannesio, misero in grave imbarazzo i Soprastanti della Fabbrica che tennero, come accennato, la statua in quarantena. Lo stesso grave imbarazzo si sarebbe riproposto ancora in due successive occasioni. La prima nel 1857, quando Pio IX in visita a Orvieto ne sollecitò la rimozione. L’operazione riuscirà qualche anno più tardi a Paolo Zampi e Luigi Fumi che condussero il restauro della cattedrale e smantellarono, insieme all’Apostolato, quella “foemina furens” – “Didone” più che “ancilla Domini” – come la definì lo storico orvietano nel suo volume dedicato al duomo e ai restauri. La seconda volta nel 1988, quando, nonostante l’impegno e gli auspici di Federico Zeri, Cesare Brandi e Antonio Paolucci e le buone speranze della Soprintendenza, il vescovo dell’epoca pose il veto al ripristino. Dopo il convegno del 2007 e la giornata di studi del 2016 presso i Musei Vaticani, un ampio dibattito e il consenso unanime delle istituzioni competenti, il capolavoro di Francesco Mochi torna finalmente nel duomo di Orvieto.

Francesco Mòchi (1580-1654)

Nato a Montevarchi da famiglia agiata, ebbe un primo apprendistato nell’arte a Firenze, probabilmente presso la bottega di Santi di Tito e certamente a contatto con l’intenso clima artistico animato da benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammanati e Giambologna. Rivelandosi presto scultore, le prime notizie circa la sua attività lo vedono a Roma nel 1603, sotto la protezione di Mario Farnese, duca di Latera: sarà lui a patrocinare in quegli anni l’ingaggio del promettente artista presso l’Opera del Duomo di Orvieto, esercitando l’autorità e il prestigio del suo rango non solo in questa occasione a favore del giovane, tanto da far sospettare che fosse il suo figlio naturale. A Roma intanto Mochi entra nella bottega dello scultore vicentino Camillo Mariani e in contatto con l’ambiente artistico veneto e soprattutto lombardo che, con Ippolito Buzzi e Stefano Maderno, si orientava su istanze classiciste e arcaizzanti. Qui rivela ben presto le sue capacità valorizzando la sua formazione toscana, sui modelli manieristi, attraverso la nuova sensibilità “del naturale” che si diffondeva anche nella capitale con le opere di Caravaggio. Grande il debutto nel 1605 con l’Angelo annunciante per i committenti orvietani, cui seguiranno a breve giro l’Annunciata e l’Apostolo Filippo (1609-1610), che ebbero accoglienza più critica. A Roma per la cappella Barberini in S. Andrea della Valle realizza la S. Marta (1612, posta in opera nel 1621) mentre a Piacenza fu Mario Farnese a procurargli la commissione dei monumenti equestri in bronzo dei suoi potenti cugini, il duca Ranuccio e il duca Alessandro Farnese (1612-29).

Nel 1629, rientrato a Roma ebbe da papa Papa Urbano VIII incarico di realizzare una grande statua di Santa Veronica per la crociera della Basilica di San Pietro, sotto la direzione del giovane emergente Gianlorenzo Bernini che, secondo le cronache, non apprezzava né facilitava l’operato di Mochi: l’opera sarà compiuta e collocata dieci anni dopo, portando a termine nel frattempo altre importanti opere per i Barberini, famiglia del pontefice. Nel 1631 l’Opera del Duomo di Orvieto torna a commissionargli una nuova statua per l’Apostolato: sarà il San Taddeo, che solo 1644 arriverà a Orvieto. Negli stessi anni l’artista riceve incarico dai Padri Benedettini della Basilica di San Paolo fuori le Mura di scolpire per l’altar maggiore due statue di marmo raffiguranti i Santi Pietro e Paolo: completate nel 1652, furono rifiutate dai committenti insoddisfatti e rimasero nella sua abitazione, fino a quando furono collocate su Porta del Popolo. Allo stesso modo del gruppo marmoreo del Battesimo di Cristo: ordinato nel 1634 da Orazio Falconieri per la cappella di famiglia in San Giovanni dei Fiorentini, non fu gradito e rimase incompiuto nello studio dell’artista, quindi fu venduto dalla vedova e collocato in palazzo Falconieri, di nuovo venduto andò a ornare la testata nord di Ponte Milvio fino al 1955 quando fu restaurato ed esposto a Palazzo Braschi e finalmente nel 2017 ha fatto il suo ingresso in S. Giovanni dei Fiorentini. Nel 1633 Francesco Mochi fu eletto Principe dell’Accademia di San Luca: ne sarebbe uscito dimissionario dieci anni dopo a causa della scorretta concorrenza del collega e amico Alessandro Algardi che gli sottrasse importanti commisioni. Nel 1641 Mochi valuta di trasferirsi in Francia su invito del re Luigi XIII ma rimane a vivere a Roma, realizzando per committenti francesi la statua marmorea del Cardinale Richelieu, oggi al Musée du Pilori di Niort. Non ebbe fortuna nemmeno la commissione delle due statue raffiguranti San Matteo e San Marco per la Basilica di San Giovanni in Laterano, e non vennero realizzate. Francesco Mochi morì a Roma il 6 febbraio 1654.

LE STATUE DEI DODICI APOSTOLI

Le monumentali sculture in marmo bianco statuario di Carrara raggiungono quasi i tre metri di altezza, ognuna con un peso di circa tre tonnellate; sono state restaurate nel corso del 2019 dalla RTI Regoli e Radiciotti/ Equilibrarte di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino, in collaborazione con Maura Giacobbe Borelli.

Poggiano sui basamenti originali in marmo rosso di Prodo con inserti in marmi policromi. Giunti in frammenti all’esito dell’ultima demolizione, sono stati ricostruiti e restaurati dalla RTI Regoli e Radiciotti/ Equilibrarte di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino.

Raffaello da Montelupo (1504-1566) – SAN PIETRO (Duomo, primo pilastro a sinistra partendo dall’altare)

La statua venne scolpita da Raffaello da Montelupo dopo la partenza nel 1557 di Francesco Moschino, che aveva già eseguito il San Paolo. La commissione delle figure colossali dei due santi fu una delle iniziative che rinnovarono profondamente l’aspetto interno del duomo nel corso del Cinquecento. Solo in seguito si decise di affiancare loro gli altri dieci apostoli e di porli di fronte ai pilastri nella navata centrale

Francesco Moschino (1523?-1578) – SAN PAOLO (1556) – Duomo, primo pilastro a destra partendo dall’altare

Il San Paolo fu commissionato a Moschino nel 1554. Venne realizzato due anni dopo e nel 1559 fu pagata una spada metallica per la statua. Insieme al San Pietro poi scolpito da Raffaello da Montelupo, venne concepito per essere collocato nel presbiterio: solo successivamente nacque l’idea di realizzare l’intera schiera apostolica da porre di fronte ai pilastri nella navata centrale. Di quella serie fu il primo a essere realizzato e messo in duomo.

Fabiano Toti (+ 1607) e Ippolito Scalza (circa 1532-1617) – SANT’ANDREA (terminato nel 1599) – Duomo, secondo pilastro a sinistra partendo dall’altare

All’arrivo del blocco di marmo nel 1589 la statua venne commissionata a Fabiano Toti che mantenne l’incarico fino al 1594, quando passò a Ippolito Scalza. Tra il 1589 e il 1590 Toti lavorava al modello: non è chiaro se egli avesse poi cominciato a tradurlo in marmo, come lascerebbero dedurre alcune caratteristiche dello stile. Lo Scalza portò a compimento il lavoro nel 1599, anno nel quale si provvide ad ordinare una croce in legno, strumento del martirio del santo e suo attributo iconografico.

Giovanni Caccini (Firenze 1556-1612/13) – SAN GIACOMO MAGGIORE (1589-1591) –  Duomo, secondo pilastro a destra partendo dall’altare

Il fiorentino Caccini, qui in una delle sue prove migliori, fu il primo scultore non orvietano ad essere ingaggiato per l’impresa delle dodici statue degli apostoli. Nel San Giacomo maggiore l’indagine naturalistica della figura in movimento nello spazio si fonde con il posato classicismo, come nel contemporaneo San Giovanni dello Scalza. È tipico dello scultore il trattamento elegante del panneggio fortemente chiaroscurato, influenzato dalla statuaria antica che Caccini praticò nelle sculture ellenistiche o romane delle collezioni medicee affidate al suo restauro.

Ippolito Scalza (circa 1532-1617) – SAN GIOVANNI EVANGELISTA (1588-1594) – Duomo, terzo pilastro a sinistra partendo dall’altare

La statua fu la quinta della serie apostolica ad essere realizzata e la seconda scolpita da Scalza, che l’avviò dopo aver compiuto il San Tommaso. Il marmo per realizzarla giunse a Orvieto nel 1588. Fu completata nel 1594 e subito dopo posta in duomo. L’apostolo e autore del quarto Vangelo, è raffigurato intento alla scrittura, sebbene il gesto sia indebolito dalla mancanza della penna, documentata dalle fotografie di fine Ottocento. L’alta ispirazione della testimonianza di Giovanni è rappresentata dall’aquila che ne è simbolo e che affianca a destra la solida figura. In essa Ippolito Scalza cercò di innovare il tipo del personaggio stante, anticipando alcune caratteristiche in seguito sviluppate dal Barocco romano.

Ippolito Scalza (circa 1532-1617) – SAN TOMMASO (terminato nel 1587) – Duomo, terzo pilastro a destra partendo dall’altare

La statua di San Tommaso fu la prima ad essere realizzata dallo Scalza, dopo la decisione di allargare la serie ai già esistenti San Paolo e San Pietro di Moschino e Raffaello da Montelupo. Fu terminata nel 1587 e subito collocata in duomo, accompagnata da grandi festeggiamenti. Il santo è ritratto con una squadra in mano mentre altri strumenti da architetto stanno a terra: la leggenda agiografica racconta che l’apostolo in India avrebbe praticato l’architettura. È verosimile che lo Scalza, anch’egli architetto oltre che scultore, abbia scelto di eseguire per prima questa figura in omaggio al santo ‘collega’, forse prestandogli le proprie fattezze, come racconta la tradizione.

Nel Museo dell’Opera del Duomo si conserva il modello preparatorio in argilla cruda della testa per la statua marmorea, restaurato da ISCR – Laboratorio “Ceramiche, Vetri e Smalti” (2014-2016).

Francesco Mochi (Montevarchi 1580 – Roma 1654) – SAN FILIPPO (1609-1610) – Duomo, quarto pilastro a sinistra

La statua è in buono stato di conservazione ad eccezione della perdita di un dito nella mano destra. Dopo il successo ottenuto con l’Angelo annunciante Francesco Mochi ricevette anche l’incarico di scolpire la Vergine annunciata e un apostolo per la serie destinata ai pilastri del duomo, San Filippo. La valutazione economica della statua dell’apostolo fu oggetto di un’accesa discussione tra lo scultore e i suoi committenti, che si concluse solo nel 1612. È notevole l’invenzione del corpo come costretto dalle fasce del panneggio, dal quale erompe il braccio destro che si libera perentorio nello spazio.

Ippolito Buzi (1562-1634) – SAN BARTOLOMEO (1616-1617) – Duomo, quarto pilastro a destra partendo dall’altare

Per il San Bartolomeo vennero richiesti modelli a diversi scultori operanti a Roma, tra i quali Pietro Bernini e Ippolito Buzi: fu il secondo a essere scelto. Il santo tiene ben evidente in mano un coltello, strumento con il quale fu scuoiato e suo attributo iconografico. L’animato contrapposto e il panneggio pesante gli conferiscono gravità. Paragonata al molto più spregiudicato San Filippo di Mochi, la figura sembra essere stata volutamente concepita per uniformarsi alle più antiche statue della serie apostolica orvietana.

Giambologna (Douai 1529 – Firenze 1608) – modello scolpito da Pietro Francavilla (Cambrai 1553 – Parigi 1616) – SAN MATTEO (1595-1600) Firmata lungo la fascia che corre attraverso il busto: PETRI FRANCAVILLA F. OPUS GIOANIS BOLOGNE – Duomo, quinto pilastro a sinistra partendo dall’altare

L’opera è una variazione del San Luca in bronzo che Giambologna fuse per una nicchia esterna di Orsanmichele a Firenze. La differenza più evidente è l’aggiunta dell’angelo, attributo iconografico di Matteo inserito su richiesta dei Soprastanti dell’Opera. L’ingaggio del celebre scultore fu un grande successo da parte dell’istituzione orvietana. Seguendo tuttavia una pratica fino ad allora inusuale, l’opera non venne realizzata a Orvieto, bensì a Firenze. L’impegno di Giambologna si dovette limitare alla realizzazione del solo bozzetto, mentre la statua in marmo fu fatta da Pietro Francavilla, come peraltro dichiarato dalla firma.

Bernardino Cametti (1669-1773) – SAN GIACOMO MINORE (1722) – Duomo, quinto pilastro a destra partendo dall’altare.

L’opera fu commissionata insieme al San Simone, come ultima del ciclo dei dodici apostoli per la navata del duomo. Il contratto, stipulato il 1° giugno 1714, prevedeva la consegna delle due statue rispettivamente entro 16 e 36 mesi. Tali scadenze non vennero rispettate a causa di pagamenti a lungo insoluti, il San Giacomo infatti è firmato e datato 1722. È notevole il trattamento delle grandi falde del panneggio che enfatizzano la postura eloquente dell’apostolo. Il contesto di ispirazione è certamente il cantiere del Laterano a Roma dove negli stessi anni prendono posto nelle nicchie borrominiane gli Apostoli realizzati da P. Le Gros, P.E. Monnot, L. Ottoni e C. Rusconi: a quest’ultimo e, in particolare, al suo San Giacomo guarda Cametti nella posa della bella figura, nella testa, nel gesto del braccio e della mano, ma anche nello sviluppo elegante e animato delle vesti.

Francesco Mochi (Montevarchi 1580 – Roma 1654) – SAN TADDEO (1631-1644)  -Duomo, sesto pilastro a sinistra partendo dall’altare.

Nel 1631 mancavano ancora tre statue per completare la serie degli apostoli. Passati oramai molti anni dal contrasto a proposito della statua di San Filippo, i Soprastanti del duomo ripresero i contatti con Francesco Mochi proponendogli di realizzare una a sua scelta delle tre figure mancanti. L’opera venne scolpita a Roma presso lo studio dell’artista. In essa Mochi replicò l’impostazione generale del San Filippo, con una serie di diagonali che convergono in un punto di tensione al di sopra dell’anca sinistra, contrastato dall’apertura verso l’esterno del braccio destro. Il movimento assertivo di quest’ultimo è ribadito dalla torsione della testa rivolta nella stessa direzione. Fu trasportato a Orvieto il 10 agosto 1644 su un carro trainato da nove paia di bufale.

Bernardino Cametti (1669-1736) – SAN SIMONE (1722) – Duomo, primo pilastro a destra partendo dall’ingresso.

Il santo tiene nella mano sinistra una sega, strumento del suo martirio, e appoggia il piede sinistro sul torso di una statua: questo allude alla leggenda agiografica secondo la quale s. Simone avrebbe scacciato i demoni dai simulacri pagani facendoli andare in pezzi. Insieme al San Giacomo Minore fu l’ultimo apostolo della serie orvietana ad essere eseguito. Il contesto di ispirazione è certamente il cantiere del Laterano a Roma dove negli stessi anni prendono posto nelle nicchie borrominiane gli Apostoli realizzati da P. Le Gros, P.E. Monnot, L. Ottoni e C. Rusconi, maestri di riferimento per il giovane Cametti che li frequentò anche presso l’Accademia di Francia. In questo caso, nel San Simone l’artista mostra di ispirarsi direttamente alla figura del San Tommaso di Le Gros, mentre nella parte inferiore riprende e sviluppa una sua precedente creazione, il San Marco nella chiesa della Madonna di San Luca a Bologna.

I SANTI PROTETTORI DELLA CITTA’

Fabiano Toti (Orvieto + 1607) – SAN ROCCO (1593) – Duomo, controfacciata

La statua venne probabilmente commissionata per fare coppia con il San Sebastiano già esistente. I due, infatti, erano considerati i più autorevoli protettori contro la peste. Completata nel 1593, nel 1622 ne venne deciso lo spostamento dal transetto. Nel 1632 risultava già collocata nella controfacciata. Il santo è raffigurato con tutti gli attribuiti consueti di pellegrino, nell’atteggiamento di mostrare le ulcere della peste sulla gamba.

Fabiano Toti (Orvieto m. 1607) – SAN BRIZIO (1601) – Duomo, Cappella Nova o di San Brizio

Il San Brizio venne commissionato nel 1597 per fare coppia con il già esistente San Costanzo dello stesso Toti. Venne terminato nel 1601 e almeno dal 1632 le due statue si trovavano presso la controfacciata del duomo, collocazione per la quale furono plausibilmente concepite. Nel XVII secolo furono spostate nella Cappella Nuova, ai lati dell’altare della Madonna di San Brizio.

Francesco Moschino (1523?-1578) e Ippolito Scalza (Orvieto 1532-1617) – SAN SEBASTIANO  (1554-1557) – Duomo, nicchia a destra della Cappella Nova, poi in controfacciata

La statua fu probabilmente disegnata e avviata da Francesco Moschino e terminata dallo Scalza, che risulta lavorarvi tra 1556 e 1557. Fu collocata in una nicchia a destra dell’arco d’ingresso della Cappella Nova nel 1559, insieme e in corrispondenza con il Cristo risorto di Raffello da Montelupo, posto nella nicchia a destra della Cappella del Corporale. Con la successiva esecuzione del San Rocco, l’altro santo protettore contro la peste, le due statue vennero associate e sistemate in controfacciata, addossate ai due semi-pilastri ai lati del portale maggiore.

Fabiano Toti (Orvieto + 1607) – SAN COSTANZO (1593-1596 – datato 1598) – Duomo, Cappella Nova o di San Brizio

Almeno dal 1632 la statua era posta nella controfacciata insieme al San Brizio. Le figure dei due santi, ritenuti patroni speciali della città, vennero spostate nel XVII secolo nella Cappella Nova, ai lati dell’immagine della Madonna di San Brizio. Nonostante la statua sia datata 1598, alcuni documenti ne accertano il completamento entro il 1596.

IPPOLITO SCALZA, un orvietano nel solco di Michelangelo

Al 20 dicembre 1617 il libro dello Stato delle anime della parrocchia di Santa Maria della Stella registra la morte di Ippolito Scalza, all’epoca ottantacinquenne, e la sua sepoltura nella chiesa dell’antico convento di San Francesco nel quale anni prima aveva costruito il bellissimo chiostro in forme cinquecentesche.

Veniva così a mancare alla città la figura di riferimento che per oltre mezzo secolo aveva diretto la fabbrica del duomo e, come architetto del Comune e dei maggiori cittadini, i principali cantieri urbani, le opere pubbliche e la cura del territorio. E aveva conferito a Orvieto il suo volto moderno.

Un artista completo e ancora tipicamente rinascimentale che aveva maturato il proprio ingegno versatile nei diversi campi dell’arte e della tecnica.

Nel 1554, poco più che ventenne, è già tra i palchi della cattedrale, scalpellino come il padre Francesco che lo forma al mestiere. Il primo incarico documentato lo vede a “sbozzare cornici” nel marmo del magnifico altare della Visitazione sotto la direzione dei due illustri capomaestri del momento, Simone Mosca e Raffaello da Montelupo che portano a Orvieto le novità del cantiere pontificio di Loreto. È a fianco dei due artisti fiorentini che compie quell’apprendistato che lo condurrà a confrontarsi con la “grande Maniera” di Michelangelo: una discendenza artistica a lui trasmessa da Montelupo, collaboratore di Michelangelo a Firenze e a Roma.

Grazie all’appoggio del maestro, Scalza e Giovanni Antonio Dosio, anch’egli collaboratore di Montelupo ma nella bottega romana, ottengono la commissione per i sepolcri Farrattini nel duomo di Amelia, compiuti nel 1564. E’ il primo importante lavoro per Scalza e rappresenta un’esperienza che lo connette al contesto e, attraverso Dosio, alla cultura antiquaria della Capitale.

Nel 1567, alla morte di Montelupo, Scalza fa istanza all’Opera del Duomo per succedergli alla guida del cantiere e dei grandi progetti di riforma artistica della cattedrale. Offre competenze nella scultura, nell’architettura, “nell’opera d’intaglio, come fogliami e grottesche, nel lavoro di legname”, “nel lavoro di stucho, nella geometria e matematica”, “nel pigliare pianta… et misurare, nel livellare acque e misurare vascelli”. Da quel momento e fino alla sua fine sarà a servizio esclusivo della Fabbrica della cattedrale e della città per “l’affectione” che ad esse lo lega.

Rinuncia a una carriera autonoma e probabilmente alla fama. L’anno dopo, il suo nome non compare nel repertorio delle Vite pubblicato da Giorgio Vasari che pure fa riferimento a giovani e promettenti “artìfici” di Orvieto, tra questi menzionando solo Cesare Nebbia “pittore” e lasciando in bianco quello dello “scultore”.

La fortuna di Scalza si giocò tutta intra moenia e fu affidata principalmente al successo di due opere realizzate per la cattedrale: la Pietà, il gruppo marmoreo che scolpì nel 1578 da un monolito di bianco di Carrara, facendo propria la sfida lasciata incompiuta da Michelangelo nella Pietà per S. Maria del Fiore a Firenze; e il San Tommaso, la statua dell’apostolo-architetto (1587) cui egli diede le proprie sembianze. All’ultima scultura, l’Ecce homo finito nel 1608, diede la misura della sua statura in una sintesi esistenziale oltre che artistica.

Per il duomo fornisce progetti e sovraintende alla realizzazione del complesso decorativo delle navate laterali e della controfacciata; al completamento della facciata, delle statue al di sopra del rosone e dei mosaici; alla costruzione del nuovo organo di cui disegna la monumentale mostra lignea; al progetto dell’Apostolato e delle altre statue marmoree. Cura personalmente la provvista del marmo di Carrara che seleziona in cava, invia per mare e accompagna nell’avventuroso viaggio, studiando soluzioni tecniche e logistiche per la dispendiosa impresa. Progetta la costruzione di un campanile che non verrà mai realizzato, così come la rettifica in forme cinquecentesche del paramento murario e dei pilastri della navata maggiore. Restaura Palazzo Soliano, costruito per Bonifacio VIII, che rimasto incompiuto accoglieva le logge del cantiere, e vi stabilisce il suo studio dove lavora ai modelli prodotti per qualsiasi esigenza dei camerlenghi.

Come architetto diede un volto nuovo alla città, spesso portando a compimento fabbriche avviate in precedenza, senza stravolgerne l’impronta originaria. Operò la stessa modernizzazione riguardo agli edifici preesistenti e ai grandi complessi architettonici che fu chiamato a restaurare e rinnovare incidendo profondamente sullo sviluppo urbanistico della città; diversamente, in alcuni casi significativi non poté vedere completati i suoi interventi, come nel caso del Palazzo Comunale rimasto incompiuto nella monumentale facciata, i cui disegni fanno apprezzare il valore scultoreo attribuito agli elementi architettonici.

Per la sua condotta moderata, ricoprì frequentemente cariche pubbliche e importanti ruoli tecnici in tutto il territorio; fu rilevatore, agrimensore, esperto idraulico e cartografo. Non si allontanò mai dal contado di Orvieto se non per brevi periodi e a stretto raggio: fu a Montepulciano, per la costruzione del duomo, e a Todi come consulente per il Tempio della Consolazione e del Ss. Crocefisso. Oggi riscoperto quale interprete originale della “maniera” michelangiolesca e nello stesso tempo come ancora uno dei “grandi costruttori di cattedrali”, continuatore della fabbrica medievale che aveva portato a compimento dopo tre secoli, Ippolito Scalza resta ancora un personaggio misconosciuto. Molte sono ancora le incognite da affrontare per comprendere a fondo la personalità di questo grande artista, a 400 anni dalla sua morte: Ippolito Scalza, un orvietano nel solco di Michelangelo.

“In Orvieto ad ogni passo incontransi porte, e finestre disegnate da quest’Architetto con ottimo gusto” ricorderà Guglielmo della Valle nel 1791, ormai all’epoca del grand tour, quando la città famosa per il vino scopriva il potenziale iconografico della straordinaria facciata e ne faceva icona in un catalogo che avrebbe fatto conoscere al mondo la suggestione della Pietà e del S. Tommaso di Scalza, e il ciclo dell’Apostolato da poco completato. Un secolo dopo, il “restauro di liberazione” avrebbe cancellato questa fase della storia decorativa e devozionale del duomo, lasciandone in silenzio i preziosi testimoni.

 

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Ultimo aggiornamento
13/11/2019